Ascolta il Minipimer – la maxi trasmissione in cui leggiamo a più voci l’intervista di Adrienne Rich ad Audrie Lorde.
Traduzione a cura di Flavia [dura 51′]
Qui la seconda parte dell’intervista.
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Intervista di Adrienne Rich a Audre Lorde (30 agosto 1979) – prima parte:
Adrienne: Cosa intendi quando dici che due dei tuoi saggi brevi, “La poesia non è un lusso” e “Usi dell’erotismo,” sono in realtà sequenze?
Audre: Voglio dire che fanno parte di qualcosa di incompiuto. Non so come sarà ciò che manca, ma sono chiaramente dei tentativi di dar forma a qualcosa legato al primo testo in prosa che ho scritto.
Uno dei fili conduttori della mia Vita è la lotta per difendere le mie sensazioni, sia quelle gradevoli che sgradevoli, dolorose o comunque siano.
Adrienne: difenderle qualora ti vengano rinnegate.
Audre: E difenderle anche se dolorose. La verità è che mi sono sempre esposta, mi sono sempre lanciata a capofitto: “Se è l’unico modo in cui puoi trattare con me, avanti, tratta con me in questo modo”.
Adrienne: Ti riferisci alla tua infanzia?
Audre: Mi riferisco a tutta la mia vita. Mi sono presa cura di me stessa attraverso le mie sensazioni. Ho vissuto per queste. A un livello così profondo che non sapevo neanche come esprimerle a parole. Mi dedicavo a sperimentare altri mezzi di comunicare e ricevere informazioni, e tutto quello che fosse possibile, perché il linguaggio non era lo strumento giusto. Intorno a me tutti parlavano incessantemente… e nessuno offriva o riceveva quasi nulla di prezioso, né per loro né per me.
Adrienne: E neanche ascoltavano ciò che provavi a dire, quando parlavi.
Audre: Quando mi chiedesti come cominciai a scrivere, ti raccontai come utilizzai la poesia da giovane. Se qualcuno mi domandava “Come stai?”, o “Cosa pensi?”, o mi poneva un’altra domanda diretta, io recitavo una poesia, e la sensazione, il frammento vitale dell’informazione, si trovava in qualche posto nella poesia. A volte era un verso. A volte un’immagine. La poesia era la mia risposta.
Adrienne: E’ come tradurre in poesia qualcosa che già esiste, qualcosa che tu già sai in modo non verbale. E’ così che la poesia diventa il tuo linguaggio?
Audre: Sí. Mi ricordo mentre leggevo nella stanza dei bimbi della biblioteca, dovevo frequentare il secondo o terzo grado, non di più, ma ricordo il libro. Era un libro di poesie illustrato da Arthur Rackham.
Erano sempre vecchi libri; alla biblioteca di Harlem ci finivano sempre i libri più vecchi, nelle peggiori condizioni; “The listeners” (“gli ascoltatori”) di Walter de la Mare… non scorderò mai questa poesia
Adrienne: E’ quella in cui un viaggiatore arriva a cavallo fino alla porta di una casa abbandonata?
Audre: Sí. Bussa alla porta ma nessuno risponde: “C’è nessuno?” chiede.
Questa poesia mi rimase impressa. Alla fine il viaggiatore batte alla porta ma ancora nessuno risponde. Ma lui ha la netta sensazione che in casa ci sia qualcuno. Quindi si gira al suo cavallo e dice: “Dì che sono venuto ma che nessuno mi ha risposto, ho mantenuto la mia parola” recitavo tra me e me questa poesia continuamente. Era una delle mie preferite. Se mi avessero chiesto “Di che tratta?” credo che non avrei saputo rispondere. Fondamentalmente fu questo il motivo principale che mi spinse a scrivere, il bisogno di dire cose che non riuscivo a dire in altro modo e che non erano neanche state espresse o già scritte in altre poesie.
Adrienne: Fu così che creasti le tue poesie.
Audre: C’erano tantissime emozioni complesse che non trovavo in nessuna poesia. Dovevo scoprire uno strumento segreto per esprimere le mie sensazioni. Di solito memorizzavo le mie poesie. Mi piaceva recitarle ad alta voce; non le scrivevo quasi mai. Nella mia testa c’era un’enorme riserva di poesie. E ricordo che, già a scuola, cercavo di pensare in un modo non poetico. Vedevo come pensavano gli altri, e rimanevo sconcertata… pensavano un passo dopo l’altro, non in bolle venute fuori dal caos che bisognava ancorare al suolo con le parole… credo che imparai questo da mia madre.
Adrienne: Cos’è che imparasti da tua madre?
Audre: L’importanza della comunicazione non verbale, che sottende il linguaggio.
Ho ampliato la mia vita grazie ad essa. Allo stesso tempo, siccome vivevo in questo mondo, non volevo usare il linguaggio come faceva mia madre. Lei aveva un rapporto curioso con le parole: quando una parola non le serviva o non aveva più la forza sufficiente, semplicemente ne inventava un’altra, e queste parole inventate iniziavano a far parte del linguaggio familiare, e guai a chi se ne dimenticava. Ma credo che mia madre mi insegnò qualcosa di più… che esisteva, tra le persone, un potentissimo mondo di comunicazione e contatto non verbale, un mondo che era assolutamente essenziale e bisognava imparare a decifrare ed utilizzare. Uno dei motivi per cui crescere mi è costato tanto era che i miei genitori, in particolare mia madre, si aspettavano sempre che sapessi ciò che sentivano, mia madre si aspettava che lo sapessi senza che lei me lo dicesse. E a me sembrava normale. Mia madre si aspettava che capissi tutto, anche ciò che non sentivo dire…
Adrienne: La legge non ammette ignoranza.
Audre: Esattamente. Era sconcertante. Però, col tempo, imparai ad acquisire informazioni vitali e a tutelarmi senza il bisogno e la mediazione delle parole. Mia madre soleva ripetermi: “Non limitarti ad ascoltare come un robot ciò che dice la gente con la bocca” e poi mi diceva qualcosa di sgradevole. Dall’osservazione si impara sempre. Devi percepire il linguaggio non verbale, perché la gente non ti dice mai ciò che devi sapere. Ciò che ti serve per sopravvivere devi impararlo da sola. E se sbagli, paghi, ma questo non è importante. Diventi forte nel fare le cose in cui ti devi rafforzare. E’ così che funziona il vero apprendimento. E’ un modo molto difficile di vivere, però a me è stato utile. E’ stata sia un’opportunità che un ostacolo. Quando iniziai ad andare a scuola scoprii che la gente pensava in modi diversi… percepivano le cose, le svisceravano, acquisivano informazioni verbalmente. Fu un periodo molto difficile. Non ho mai studiato; in realtà intuivo i miei professori. Per questo era così importante che mi piacessero, perché non studiavo mai, non leggevo mai i libri di testo; imparai molte cose percependo ciò che i professori sentivano, ciò che sapevano.. ma persi anche molte cose, la maggior parte delle mie attitudini originarie.
Adrienne: Quando dici che non leggevi mai, ti riferisci solo ai libri di testo, perchè leggevi giusto?
Audre: Quando leggevo le lezioni non le leggevo come si supponeva si dovessero leggere. Le leggevo come fossero poesie, con diverse curve, e differenti livelli. Per questo avevo sempre l’impressione che il mio modo di imparare le cose era diverso dagli altri. E mi sforzavo di imparare a pensare.
Adrienne: Per fare ciò che supponevi facevano gli altri. Ricordi cosa sentivi mentre ci provavi?
Audre: Si. Avevo l’immagine di cercare di raggiungere qualcosa che era proprio dietro l’angolo ma che mi sfuggiva. L’immagine svaniva costantemente. In Méssico, quando mi trasferii in Cuernavaca, ebbi un’esperienza…
Adrienne: Quanti anni avevi, più o meno?
Audre: Avevo diciannove anni. Andavo tutti i giorni a Città del Méssico per assistere alle lezioni. Per arrivare alla prima lezione dovevo prendere l’autobus delle sei di mattina alla piazza del popolo. Uscivo di casa prima che facesse giorno. Tu sai che lì ci sono due Vulcani. Il Popocatepetl e il Ixtacuhuatl. La prima volta che li vidi dalla finestra di casa pensai che erano nuvole. Quando uscivo era ancora buio, riuscivo a vedere la cima innevata delle montagne, ed il sole che sorgeva nel cielo. E quando il sole arrivava ad un certo punto, gli uccelli cominciavano a cantare. Quando eravamo a valle, sembrava ancora notte. Ma la neve rifletteva la luce. E poi si sentiva un incredibile crescendo di uccelli. Una mattina salii in montagna e sentii come si sprigionavano gli aromi verdi, umidi, dalla terra. E dopo gli uccelli, fino ad allora non avevo mai notato i loro canti, non li avevo mai ascoltati. Ridiscesi per il pendio in estasi. Era molto bello. Dal mio arrivo in Messico non avevo mai scritto nulla. Per me le parole erano poesia, erano molto importanti… E in quella montagna sentii per la prima volta che potevo unire le due cose. Potevo infondere i miei sentimenti nelle parole. Non era necessario creare il mondo su cui scrivere. Compresi che le parole potevano esprimere delle sensazioni. Che la frase caricata di emozione era una realtà. Fino ad allora avevo creato strutture al cui interno si nascondeva una pepita d’oro, come in una torta cinese, da qualche parte doveva pur esserci del cibo, ciò che mi nutriva realmente, ciò che dovevo creare. In quella montagna mi sentii invasa da odori, sentimenti, immagini, invasa da una bellezza incredibile.. era qualcosa su cui avevo sempre e solo fantasticato. Prima immaginavo alberi e sognavo boschi. Fino a che non mi misero gli occhiali – a 4 anni – pensavo che gli alberi fossero nuvole verdi. Quando al liceo leggevo Shakespeare, passeggiavo nei suoi giardini, tra il muschio e le rose spagnole, e i cancelli dietro i quali riposavano bellissime ragazze, e il sole che brillava sui mattoni rossi. In Messico scoprii che questo poteva essere reale. Quel giorno in montagna imparai che le parole potevano essere all’altezza di questa realtà, ricrearla.
Adrienne: Credi che in Messico sei riuscita a vedere una realtà così straordinaria, vivida e sensuale che prima vedevi solo nelle tue fantasie?
Audre: E’ così. Prima credevo che si poteva solo creare con la fantasia, inventando. In Messico imparai che niente si può inventare se già non esiste o può arrivare ad esistere. Non so quando ne presi consapevolezza per la prima volta; ricordo però le storie che mi raccontava mia madre su Granada, l’isola caraibica dove nacque… Ma quella mattina, in Messico, Mi resi conto che non avrei dovuto passare il resto della mia vita inventando la bellezza. Ricordo che cercai di spiegare a Eudora quel miracolo, ma che non avevo parole per esprimerlo. E ricordo ciò che lei mi disse: “Scrivi una poesia”. Provando a scrivere una poesia su come mi ero sentita quella mattina, non ci riuscii, ricordavo solo che doveva esserci un modo. E questo era fondamentale. So che tornai dal Messico molto cambiata,
E questo cambiamento era dovuto in larga parte a ciò che imparai da Eudora. Ma, oltre a questo, era come se dato libero sfogo alla mia opera, a me stessa.
Adrienne: Poi tornasti a Lower East Side, giusto?
Audre: Si, tornai a vivere con la mia amica Ruth, e cominciai a cercare lavoro. Ero stata un anno all’Università, ma quel mondo mi era alieno. Dovetti diventare infermiera. Stavo incontrando tantissime difficoltà nel trovare un qualsiasi tipo di lavoro. Così pensai di prendere un diploma da infermiera e poi tornare in Messico…
Adrienne: Già, con un lavoro.
Audre: Ma questo non fu possibile. Non avevo i soldi e alle donne Nere non erano concesse borse di studio per la scuola di Infermeria. Allora non lo capii, perché asserivano che era a causa della miopia. La prima cosa che feci al ritorno fu scrivere un’opera in prosa sul Messico, la intitolai “la llorona”. La LLorona è una leggenda di questa regione del Messico, della zona di Cuernavaca. Conosci Cuernavaca? Conosci il gran canyon? Quando piove sulle montagne, le rocce precipitano dalle enormi scogliere. Il suono, l’irrequietezza, comincia uno o due giorni prima che cominci a piovere. Il rumore delle rocce che rotolano, compone una voce e gli echi che risuonano somigliano a un pianto, con l’acqua di sottofondo. Modesta, una donna che viveva a casa mia, mi raccontò la leggenda della Llorona. Una donna che aveva tre figli un giorno trovo il marito a letto con un’altra – è la storia di Medea – e affogò i suoi figli nel canyon. E tutti gli anni, in questa data, torna a piangere la loro morte. Appoggiandomi a questa storia e intrecciandola con altre cose sentite allora, scrissi un racconto intitolato “La Llorona”. Fondamentalmente tratta del rapporto con mia madre. Più o meno presi mia madre e la inserii in quella situazione: ed abbiamo una donna che uccide, che desidera qualcosa, una donna che divora i suoi figli, che chiede troppo, ma non lo fa perché cattiva bensì perché desidera una vita propria, ma la sua vita è fin troppo distorta… E’ un racconto molto strano, senza una fine, ma la dinamica….
Adrienne: Se diría que tratabas de combinar dos fragmentos de tu vida, tu relación con tu madre y lo que habías aprendido en México.
Audre: Sí. En fin. no me enfrenté al gran peso que tenía mi madre dentro de mí, y lo tenía, ni tampoco a lo mucho que eso me afectaba. Pero es una historia hermosa. Algu- nos fragmenos están en mi cabeza, allá donde tengo la reserva de poesía. expresiones, cosas así. Hasta entonces nunca había escrito prosa, y no he vuelto a escribirla hasta ahora mismo. Publiqué “La Llorona” con el seudónimo de Rey Domini, en una revista …
Adrienne: Perchè utilizzasti uno pseudonimo?
Audre: Perchè non scrivo racconti. Scrivo poesie. Così dovetti firmare con un altro nome
Adrienne: Perchè corrispondeva ad una parte diversa di te?
Audre: Certo. Io scrivo solo poesie ed ecco all’improvviso comparire un racconto. Però utilizzai il nome “Rey Domini”, che è la traduzione in latino di “Audre Lorde”.
Adrienne: Non hai più scritto in prosa da quel momento in poi, per altri due anni, finché non scrivesti “La poesia non è un lusso”?
Audre: Non potevo. Non so perchè, quante più poesie scrivevo, tanto più mi sembrava impossibile scrivere in prosa. A volte mi chiedevano la recensione di un libro o, quando lavoravo nella biblioteca, che riassumessi dei libri… e non è che non sapessi farlo. Allora ne capivo abbastanza di frasi. Sapevo costruire un periodo (paragrafo). Ma comunicare sentimenti profondi attraverso blocchi solidi, lineari, mi sembrava un mistero, era un metodo che andava oltre la mia capacità di comprensione.
Adrienne: Però scrivevi lettere alla velocità del fulmine. E’ così?
Audre: Non erano esattamente lettere. Mettevo per iscritto il flusso di coscienza, il che era sufficiente per comunicare con le persone che mi erano più vicine.
I miei amici mi restituirono le lettere che scrissi dal Messico… è divertente, queste erano le migliori. Ricordo la sensazione di non riuscire a concentrarmi solo su un pensiero il tempo necessario per portarlo dall’inizio alla fine, in compenso potevo passare giorni e giorni a meditare su una poesia, accampata in quel mondo.
Adrienne: Lo attribuisci a delle tue convinzioni di allora o al fatto chi il pensiero era un processo misterioso al quale si dedicavano altre persone e in cui tu non avevi fatto pratica? Qualcosa a cui non eri abituata?
Audre: Per me era un processo misterioso. Un processo che arrivai a sfidare dopo essermi resa conto che in suo nome si commettevano tanti errori, un processo per il quale non nutrivo alcun rispetto. E, allo stesso tempo, mi metteva paura perché ero arrivata a delle convinzioni irrinunciabili sulla mia vita, sui miei sentimenti, le quali sfidavano il pensiero. E non potevo farne a meno. Non potevo prescindere da loro. Non potevo rinunciare a quelle convinzioni. Le stimavo troppo. Per me erano la vita stessa. Però non potevo analizzarle ne comprenderle visto che non avrebbero potuto, secondo quanto mi era stato insegnato, essere ragionate. Erano cose che si sapevano ma non si potevano dire ne comprendere.
Adrienne: Nel senso che non potevi spiegarle, analizzarle e difenderle?
Audre: non potevo scrivere in prosa a riguardo. Ecco. Molte delle poesie per cui sono conosciuta, sono state raccolte in The First Cities. Le scrissi ai tempi del liceo. Se mi avessero chiesto di parlare di una qualunque di queste poesie, avrei detto solo banalità. L’unica cosa certa era che dovevo tutelare quei sentimenti e, in qualche modo, dargli spazio.
Adrienne: Però al contempo li stavi trasformando in parole.
Audre: Certo. Quando scrivevo delle parole che finalmente riuscivano e rifletterli, le ripetevo ad alta voce e allora prendevano vita, diventavano reali. Cominciavano a ripetersi da sole e allora sapevo che era così che suonava, che quello era vero. Come una campana. Risuonava davvero qualcosa. E non c’erano parole.
Adrienne: Come si collegò, secondo te, l’insegnamento alla scrittura?
Audre: So che l’insegnamento è una tecnica di sopravvivenza. Lo è per me e credo che lo sia in generale; è l’unico modo in cui si può imparare. Io stessa stavo imparando qualcosa che mi serviva per continuare a vivere. Era come fare lezione a me stessa ad alta voce. Tutto cominciò nel laboratorio di poesia di Tougaloo.
Adrienne: Quando ti chiamarono per andare a Tougaloo non stavi bene, vero?
Audre: Già, mi sentivo… come se stessi per morire.
Adrienne: Che successe in quel periodo?
Audre : Diane di Prima – era il 1967 – fondò l’editoriale Poets Press. E mi disse: Non credi sia ora che pubblichi un libro?” le risposi “ah, si? E chi lo pubblicherebbe?” Io ero sul punto di archiviare le mie poesie perché, invece di scrivere cose nuove, non smettevo di rivederle; fu allora che compresi, ancora una volta attraverso l’esperienza, che la poesia non è un gioco di costruzioni. Non si può prendere una poesia e rivederla continuamente. La poesia esiste in se stessa. Devi sapere in quale momento va lasciata così com’è. Ma io non smettevo di pulirle e ripulirle, e Diane mi disse: “Devi pubblicare tutto questo. Fallo uscire alla luce”. E Poets Press pubblicò The first Cities. Comunque lavorai al libro, lo misi insieme, ed era sul punto di andare in stampa. Mi avevano mandato le bozze ed avevo cominciato a ritoccarlo nuovamente; allora presi consapevolezza: Quello sarebbe diventato un libro! Mi sarei esposta. Dei perfetti sconosciuti avrebbero letto quelle poesie. Cosa sarebbe successo?
(continua)